GRUPPO DI AUTO AIUTO PER I FAMILIARI DEI MORTI IN CARCERE
Detenuti picchiati denudati e insultati ma i media parlano di scarcerazioni
Pestaggi, ritorsioni nei confronti dei rivoltosi, presunte squadrette che hanno creato terrore nelle sezioni del carcere. Il biennio 2019 – 2020 è il periodo dove sono emerse denunce riguardanti presunti abusi all’interno dei penitenziari italiani. Il picco sarebbe stato raggiunto il giorno dopo le rivolte carcerarie avvenute tra il 7 e l’11 marzo scorso
Damiano Aliprandi, il Dubbio 12 ago 2020
Pestaggi, ritorsioni nei confronti dei rivoltosi, presunte squadrette che hanno creato terrore nelle sezioni del carcere. Il biennio 2019 – 2020 è il periodo dove sono emerse denunce riguardanti presunti abusi all’interno dei penitenziari italiani. Il picco sarebbe stato raggiunto il giorno dopo le rivolte carcerarie avvenute tra il 7 e l’11 marzo scorso. Mentre il tema “scarcerazioni” (che in realtà si trattava di differimento pena per motivi di salute ai tempi del covid 19) ha monopolizzato i mass media e l’opinione pubblica, poco è stato detto sui presunti pestaggi dove alcune procure hanno avviato indagini – alcune conclusasi con la richiesta di rinvio a giudizio – con l’accusa di reato di tortura.In questo momento sono circa otto i procedimenti in corso per episodi di tortura che vedono implicati gli agenti della polizia penitenziaria.
Partiamo dal carcere di San Gimignano dove l’associazione Yairaiha Onlus ha reso pubblica la lettera – pubblicata in esclusiva su Il Dubbio – da parte di un detenuto che sarebbe stato spettatore di un presunto pestaggio nei confronti di un extracomunitario. Addirittura lo scrivente ha detto di essere stato aggredito da un agente penitenziario per aver protestato contro il presunto pestaggio. L’altra conferma che qualcosa è accaduto è poi dovuta dalla Asl che, una volta ricevuto i referti compilati dal medico di turno, ai sensi dell’art 331 cpp, è stata trasmessa la notizia di reato alla competente Procura di Siena. Poi, nell’ottobre del 2019, dopo un’accurata indagine con tanto di prove video, il pubblico ministero ha contestato il reato di tortura nei confronti di quindici agenti di polizia penitenziaria della Casa di Reclusione. Nei confronti di 4 poliziotti, a seguito di misura interdittiva disposta dalla procura, il Dap aveva disposto la sospensione dal servizio. Al termine del periodo sono regolarmente rientrati in servizio. Oltre Yairaiha Onlus, anche l’associazione Antigone è parte del procedimento in quanto a dicembre del 2019 ha presentato un proprio esposto sui fatti. L’udienza preliminare originariamente fissata per il 23 aprile 2020, a causa dell’emergenza sanitaria è stata rinviata al 10 settembre 2020. Parteciperà anche l’autorità del garante nazionale delle persone private della libertà come parte offesa.Come si legge nel pre – rapporto di Antigone c’è il caso del carcere di Monza. I fatti risalgono ad agosto 2019 e riguardano la violenta aggressione fisica denunciata da un detenuto. A fine settembre Antigone presenta un esposto, che si affianca alla denuncia presentata dalla vittima. Il magistrato, nel corso del procedimento, ha acquisito le videoregistrazioni relative a quanto accaduto. Nel febbraio del 2020 è stato avviato il procedimento per tortura contro taluni agenti. Le indagini sono attualmente in corso. Così come al carcere di Palermo, a gennaio di quest’anno, Antigone viene a conoscenza di un episodio di maltrattamenti nei confronti di una persona detenuta, il quale in Corte di Assise di Appello di Palermo rende dichiarazioni spontanee, denunciando le violenze subite all’arrivo in carcere. La Corte, riscontrati i segni al volto e ascoltato il racconto, trasmette gli atti alla Procura. A seguire Antigone ha presentato un esposto contro gli agenti per tortura e contro i medici per non avere accertato le lesioni. Anche in questo caso le indagini sono attualmente in corso.
I PESTAGGI DOPO LE RIVOLTE CARCERARIE.
A marzo 2020, durante l’emergenza sanitaria dovuta al diffondersi del covid 19, Antigone è stata contattata da molti familiari di persone detenute presso il Carcere di Opera, per le violenze, gli abusi e i maltrattamenti, come punizione per la rivolta precedentemente scoppiata nel I Reparto. A seguire Antigone ha presentato un esposto per tortura. Sempre a marzo 2020 – periodo delle rivolte – Antigone è stata contattata dai familiari di molte persone detenute presso il carcere di Melfi, le quali hanno denunciato gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai familiari nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020, verso le ore 03.30, come punizione alla protesta scoppiata il 9 marzo 2020 in seguito alle restrizioni conseguenti allo stato d’emergenza sanitaria. Le testimonianze parlano di detenuti denudati, picchiati, insultati e messi in isolamento. Molte delle vittime sarebbero poi state trasferite. Durante le traduzioni non sarebbe stato consentito nemmeno di andare in bagno. Ad esse sarebbero state fatte firmare delle dichiarazioni in cui dichiaravano di essere cadute accidentalmente. Ad aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e torture. Poi c’è il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Nel mese di aprile 2020 Antigone è stata contattata da diversi familiari di persone detenute presso il reparto “Nilo” della casa circondariale campana per abusi, violenze e torture subite da taluni detenuti. Le violenze sarebbero avvenute nel pomeriggio del 6 aprile 2020 come ritorsione per la protesta svoltasi il giorno precedente dopo il diffondersi della notizia secondo cui vi era nell’istituto una persona positiva al coronavirus. I medici, in base a quanto denunciato, avrebbero visitato solo alcune delle persone detenute poste in isolamento, non refertandone peraltro le lesioni. Sin attivò anche il garante regionale Ciambriello. A fine aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per tortura, percosse, omissione di referto, falso e favoreggiamento. Sempre nel marzo 2020 Antigone è stata contattata dai familiari di alcune persone detenute nel carcere di Pavia che hanno denunciano violenze, abusi, e trasferimenti arbitrari subiti a seguito delle proteste di qualche giorno prima. La polizia avrebbe usato violenza e umiliato diverse persone detenute, colpendole, insultandole, privandole degli indumenti e lasciandole senza cibo. Ai detenuti durante il trasferimento non sarebbe stato permesso di portare nulla dei propri effetti personali né di avvisare i familiari. A fine aprile Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e tortura. Le indagini sono attualmente in corso. Diverse persone sarebbero state già sentite dalle autorità inquirenti.Altri presunti pestaggi sarebbero avvenuti nel carcere di Foggia e sempre come ritorsione per la rivolta. A rendere pubblica l’esposto fatto in procura da parte dei familiari è Il Dubbio. Ad occuparsi del caso è stata “La rete emergenza carcere” composta dalle associazioni Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Legal Team, Osservatorio Repressione e LasciateCIEntrare. Si tratta di testimonianze dei familiari di alcuni detenuti presso la Casa circondariale di Foggia prima dell’intervenuto trasferimento in seguito alla rivolta. Sono ben sette le drammatiche testimonianze. Sarà la Procura ad accertare quanto sia effettivamente avvenuto e, nel caso, ad esercitare un’azione penale nei confronti dei responsabili di eventuali reati. Rimangono sullo sfondo le diverse testimonianze che coincidono perfettamente. Non per ultimo c’è il discorso dei 14 detenuti morti a seguito delle rivolte. Ufficialmente, dopo aver effettuato l’autopsia, risulta che sono morti per overdose. Ma resta aperto il discorso dei detenuti morti a seguito dei trasferimenti. Parliamo di quelli di Monza, morti uno dopo l’altro nel momento del trasferimento nelle altre carceri. Alcuni con viaggi durati ore. Cinque erano già morti nel carcere, mentre gli altri quattro sono morti durante il trasferimento. Come mai non si sono accorti che anche quest’ultimi avevano fatto una ingestione di metadone? Sarà eventualmente la magistratura a cercare la verità dei fatti.
Appello per la sospensione della pena per tutti detenuti malati e anziani
Emergenza Covid ha fatto esplodere tutta la brutalita insita nel carcere in se
Carcere e diritti, associazione Yairaiha: "L'emergenza Covid ha fatto esplodere tutta la brutalità insita nel carcere in sé"
28 Luglio 2020 at 10:34 514 Views
di Katya Maugeri Direttore Sicilianetwork
«Non sempre è facile veicolare messaggi di solidarietà nella società, ancor più quando si parla di determinate categorie sociali. I detenuti sono visti con molta diffidenza, si presuppone che “se stanno in carcere qualcosa devono aver fatto”». Ci racconta Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha che da anni è impegnata a divulgare solidarietà sociale.
I sentimenti che accompagnano la maggior parte della società, verso chi sta in carcere, sono intrisi di pregiudizi e da una buona dose di “retorica della colpa” secondo la quale chi delinque lo fa perché è nato delinquente e vuole delinquere.
«Periodicamente organizziamo incontri tematici in collaborazione con le università – continua Sandra Berardi – le camere penali, circoli culturali, ultimamente anche online, e riscontriamo un grande interesse anche tra la gente “comune” non solo tra gli addetti ai lavori, tra gli studenti o tra i familiari. Il problema principale sta nella cattiva informazione che contribuisce a formare l’opinione pubblica in chiave giustizialista».
La maggior parte dei media, ci spiega, tratta l’argomento carcere e detenuti in maniera tale che la società non vada oltre l’equazione “Ha sbagliato? Si buttino le chiavi!” Poco ci si interroga rispetto al significato e alle origini delle pene, al perché del carcere, al chi stabilisce cosa è reato e come sanzionare chi infrange le regole di una comunità.
Ancor meno ci si interroga su come prevenire l’infrazione delle regole; quali siano le cause, i contesti in cui maturano; se esistono responsabilità sociali e politiche per alcuni “delitti”.
«Possiamo affermare tranquillamente che alcuni articoli della nostra Costituzione sono completamente ignorati dai più. Mi riferisco in particolare all’art. 3, l’obbligo per lo Stato a rimuovere le cause e gli ostacoli affinché tutti i cittadini possano avere le stesse opportunità senza distinzione alcuna. All’art. 27, ovvero al carattere “rieducativo” della pena. Inoltre credo che si confonda lo Stato con il governo e l’equivoco di fondo, e di comodo, è frutto di un processo di deresponsabilizzazione sociale che negli ultimi secoli ha completamente delegato a chi gestisce la cosa pubblica il benessere della comunità.
In tempi più recenti la politica, a sua volta, ha delegato la magistratura a gestire e regolare i meccanismi socio-economici determinando un approccio penalistico alla risoluzione di problematiche che necessiterebbero di risposte altre».
Il Covid-19 ha amplificato questa emergenza?
«L’emergenza Covid ha fatto esplodere tutta la brutalità insita nel carcere in sé. A cominciare dai numeri. Al 7 marzo la popolazione detenuta aveva oltrepassato di gran lunga la “capienza regolamentare” di 47.000 “unità” arrivando a contenere oltre 61.000 persone. 14.000 persone in più non sono un freddo dato statistico, sono persone ammassate in cameroni anche da 12/13 letti con un bagno-cucina per tutti in condizioni igienico-sanitarie precarie mentre i media, già nelle settimane precedenti il lockdown, avevano iniziato a martellare giorno e notte, a reti unificate, con il bollettino dei morti di Covid e le raccomandazioni per una accurata igiene personale ed evitare assembramenti. Tutte le paure, le tensioni e le contraddizioni si sono amplificate fino ad esplodere con la sospensione dei colloqui con i familiari.
E non è un caso che le rivolte siano scoppiate nelle sezioni “comuni”, le sezioni dove c’è una più alta concentrazione di persone con un tasso di sovraffollamento che in alcuni casi sfiora il 200%!
Con buona pace degli amanti della dietrologia, non c’è stata nessuna regia anarco/mafiosa dietro le rivolte di marzo, ma la sottovalutazione della reazione che avrebbero avuto persone già private della libertà, degli affetti, di un senso alla propria esistenza, -ed anche alla propria detenzione, condannate all’inazione per 20-22 ore al giorno-, alla notizia della chiusura dei colloqui con i familiari e l’impossibilità di mettere in pratica il distanziamento fisico.
A conferma dell’incapacità di gestire l’emergenza Covid in carcere possiamo sottolineare il colpevole ritardo nella predisposizione delle aree protette e la mancanza di Dpi nelle prime settimane di lockdown. Il dato che emerge ad una attenta analisi dell’azione di governo sulla popolazione detenuta è l’aver trattato in termini securitari una emergenza sanitaria mondiale che avrebbe necessitato ben altra attenzione politica come stava già avvenendo in altri paesi.
L’Iran, ad esempio, già il 3 marzo aveva predisposto la sospensione della pena a circa 70.000 detenuti; in Italia, invece, è stata messa sul banco (mediatico) degli imputati l’ormai famosa circolare del 21 marzo, e qualche capro espiatorio nei vertici del Dap, che seguiva le linee (di buon senso) dettate dall’OMS con effetti tragici per la popolazione detenuta, soprattutto per i detenuti anziani e gravemente ammalati.
Ritengo che il clamore sulla sospensione della pena a due/tre nomi “eccellenti” sia stato sollevato strumentalmente per due ordini di motivi: la quasi totalità dei media che ha trattato la questione ha omesso alcune questioni importantissime che, viceversa, se riportate correttamente, avrebbero ridimensionato molto il peso di queste sospensioni. Sul caso Bonura, ad esempio, si è omesso il fatto che a dicembre, dopo circa 6 mesi quindi, avrebbe finito di scontare per intero la sua condanna; omissioni analoghe si registrano nel caso Zagaria per il quale il magistrato di sorveglianza aveva disposto la sostituzione della misura detentiva per soli 5 mesi, il tempo di curarsi. Con l’insediamento dei nuovi vertici del DAP viene emanata una nuova circolare che ricalca quella precedente. E non poteva essere altrimenti visto che il diritto alla salute è l’unico diritto qualificato come fondamentale nella Costituzione italiana.
Quale è stato allora il vero obiettivo della querelle? Quando mi pongo questa domanda mi appaiono i volti dei 14 detenuti morti durante le rivolte. E il fatto che su questi 14 morti, sui trasferimenti dei detenuti in piena pandemia, con diffusione di contagi, è pesato, e pesa, un silenzio istituzionale e mediatico gravissimo che dovrebbe far riflettere sullo stato della democrazia».
Far conoscere la realtà carceraria è importantissimo perché l’umanità che vi è reclusa fa parte delle nostre comunità e «non ci si può nascondere dietro la formula che la responsabilità penale è personale. La cura, l’attenzione dello Stato verso ogni suo componente deve essere a monte. Se impiegassimo tutte le risorse che vengono impiegate per la repressione per prevenire i fenomeni devianti e rimuoverne le cause potremmo anche riuscire a liberarci del carcere».
Ma quali sono le battaglie sociali portate avanti dall’associazione Yairaiha?
«Yairaiha sogna un mondo libero dal carcere. Da anni portiamo avanti la battaglia per l’abolizione dell’ergastolo e del 41 bis, in quanto riteniamo che siano una pena e un regime in netto contrasto con il dettato costituzionale che oltrepassano la barbarie del carcere in sé.
E poi il diritto alla salute; facciamo decine e decine di segnalazioni in merito alla salute negata e qualche campagna per l’applicazione degli istituti di tutela della salute dei detenuti (art. 47 OP e 32 della Costituzione). Ormai da tempo, e in diverse parti del mondo, intellettuali, giuristi e pezzi di movimenti sociali stanno elaborando ipotesi riduzioniste e abolizioniste dell’istituzione carceraria. Diverse esperienze concrete, come le comunità educanti per i carcerati da qualche anno attive anche in Italia su modello delle APAC brasiliane, attive già dagli anni ’70, puntano ad un processo partecipato di recupero del reo che gradualmente investe anche l’ambiente sociale in cui la persona ha maturato il delitto.
Questi tipi di percorsi, messi a confronto con la realtà carceraria ed i risultati (disastrosi) raggiunti, ci dimostrano il fallimento dell’istituzione carceraria per come è concepita in Italia».
Una pena che reclude e annienta la persona, la infantilizza, la priva degli affetti e del diritto alla salute, che le fa perdere la dignità di essere umano, è una pena dannosa e controproducente e, nella maggior parte dei casi, ottiene l’effetto contrario a quello professato dalla pretesa punitiva dell’azione penale.
«Nelle comunità educanti si indagano le ragioni del delitto e si progettano i possibili risarcimenti delle vittime; si accompagna la persona a comprendere il male fatto e a cercare di riparare. È un approccio completamente diverso che pone le basi per un processo di responsabilità collettiva rispetto ai fenomeni devianti. Fenomeni che, non dimentichiamolo, sono endogeni alla nostra società non corpi estranei».
Per scelta non hanno mai fatto visite autorizzate nelle carceri, «ma ispezioni insieme a parlamentari sensibili. Devo dire che negli ultimi anni i parlamentari italiani hanno pressoché rinunciato al potere/dovere di ispezionare i luoghi di detenzione “a sorpresa”. Fino allo scorso anno abbiamo effettuato tante ispezioni assieme con l’ex eurodeputata Eleonora Forenza (una delle ultime ad aver assolto pienamente alla sua funzione); la lista è lunga, ma le ultime ispezioni hanno riguardato Bari e la sezione femminile del carcere di Lecce. Dal carcere di Bari, ma anche da Poggioreale precedentemente, siamo uscite stravolte per il degrado strutturale e per quell’umanità reclusa.
La maggior parte delle persone detenute non sono “pericolosi criminali”, ma gente che vive di espedienti. Piccoli spacciatori e tossicodipendenti, parcheggiatori abusivi, ladruncoli, tantissimi con la doppia diagnosi (tossicodipendenti e con disagio psichico).
Tratto comune del 90% della popolazione detenuta è la provenienza geografica: meridionali e migranti. Uno spaccato sociale che ci restituisce, in carne e ossa, il carattere razzista e classista della fabbrica penale. E questa è la fotografia delle carceri, non solo in Italia».
Ostativita diritto alla salute ed emergenza sanitaria
Il decreto Cura Italia in materia penitenziaria del governo italiano mentre finge di affrontare il rischio epidemico nelle carceri, in realtà vuole solo abbandonare a se stessa, e al contagio, una parte della popolazione detenuta, rinnegando per l'ennesima volta i principi costituzionali ed internazionali in materia di diritti umani in nome di una concezione solamente retributiva della pena. Un decreto emergenziale, che avrebbe dovuto rendere più facili le scarcerazioni, per far fronte al gravissimo rischio di una mortale epidemia nelle carceri, si sono introdotte rigidità tali da rendere spesso più favorevoli le norme preesistenti.
Da una parte, in piena emergenza pandemica, limita la possibilità di accedere a misure domiciliari in base al titolo del reato e alla quantità di pena residua; dall’altra lascia alla discrezionalità del singolo magistrato di sorveglianza di decidere sui casi che non rientrano nei parametri, strettissimi, stabiliti dal decreto. Riteniamo, infatti, che precludere a priori la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare ai detenuti in base al titolo del reato, o della quantità di pena residua, sia miope e mette a serio rischio contagio una parte considerevole della popolazione detenuta che presenta diversi fattori di rischio tra cui l’età, le patologie e gli anni di carcerazione pregressi. Anziani, ammalati e detenuti di lungo corso costituiscono la parte più fragile della popolazione detenuta.
Altro elemento che riteniamo essere discriminatorio è la preclusione al beneficio emergenziale per i condannati ai sensi del 4 bis anche se con un residuo di pena inferiore ai 18 mesi. Le preclusioni del 4 bis sono riferite ai benefici penitenziari “ordinari” e non contemplano l’eccezionalità di una pandemia che sta mettendo in ginocchio la popolazione mondiale. Nell’ultimo mese gli appelli indirizzati al presidente Mattarella e al governo si sprecano: abbiamo iniziato dal 4 marzo a chiedere la sospensione della pena per tutti detenuti ammalati ed anziani, non come atto di clemenza, bensì come misura preventiva al fine di evitare il rischio concreto di condanna a morte di queste persone ma, dall’altra parte, abbiamo trovato un muro di gomma.
In questa ultima settimana, anche in base alle numerose segnalazioni ricevute dai familiari e trasmesse alle autorità competenti, abbiamo indirizzato una lettera a tutte le direzioni penitenziarie e sanitarie per conoscere i dati attinenti all’emergenza in atto, quindi i numeri dei soggetti a più fragili e maggiormente esposti a rischio contagio, ovvero i portatori di patologie specifiche; le misure di prevenzione adottate, forniture di dispositivi individuali di protezione ecc. ecc..
Pur tuttavia non possiamo restare a guardare in attesa che il governo recepisca le tante sollecitazioni ricevute, ed agisca in virtù dei soli due fattori vitali, posti a tutela delle garanzie costituzionali in questa fase, ovvero: umanizzazione della pena e diritto alla salute in ragione dell’emergenza sanitaria in atto per effetto della diffusione del c.d. ‘ coronavirus’.
Sulla scorta dei principi di umanizzazione della pena, tutelato dall’art. 27 della Costituzione e dall’art. 3 Cedu, e del diritto alla salute, garantito a tutti e tutte dall’art. 32 della Costituzione, ed in deroga al decreto Cura Italia, abbiamo inteso presentare istanze di sospensione della pena in base all’art. 47 dell’OP, anche per i detenuti ostativi. Una di queste istanze, presentata dall’avv. Antonino Campisi del foro di Siracusa per un ergastolano con diverse patologie pregresse e oltre 30 anni di detenzione, è stata accolta favorevolmente dalla magistratura di sorveglianza de L’Aquila che con grande equilibrio, lontano dal becero giustizialismo che va in onda a reti unificate, ha riconosciuto i rischi connessi alla permanenza in carcere di una persona anziana e malata. Molte altre sono in istruttoria presso diversi uffici di sorveglianza e si attendono le decisioni; quello che preoccupa è, ancora una volta, il rischio connesso alla mancanza di una norma che, di contro, avrebbe messo al riparo da decisioni discrezionali affidate alle diverse sensibilità e al potere discrezionale del singolo magistrato.
Oggi è solo grazie ai magistrati di sorveglianza illuminati che si riescono ad ottenere quei diritti che la politica non è in grado di tutelare e salvaguardare, con riforme atte ad accontentare solo quel ristretto elettorato di bandiera e non a garantire il Diritto alla vita di ogni cittadino, soprattutto, di quei cittadini che soffrono in carcere in uno stato di degrado igienico-sanitario e di abbandono.
3 aprile 2020 - Rete Emergenza Carcere (Yairaiha Onlus, Legal Team Italia, Bianca Guidetti Serra, Osservatorio Repressione, Lasciatecientrare)
THEY CAN T BREATHE TOO
Si chiamavano Artur, Salvatore, Ghazi, Haitem, Hafedeh, Ben Mesmia, Alì, Agrebi, Ariel, Rouan, Marco, Carlo Samir, Ante. A differenza di George Floyd, barbaramente assassinato da un poliziotto a Minneapolis, non abbiamo (o forse non avremo mai) riprese video di come siano morti, degli ultimi minuti, degli ultimi respiri delle loro vite. Non sappiamo e forse non sapremo mai se sia stato un ginocchio sul collo o una scarica di calci, pugni, manganellate o altre sevizie ad ucciderli; ma possiamo immaginare che abbiano implorato il loro/i loro aguzzino/i di smettere, di non ucciderli; possiamo immaginare lo stesso terrore che abbiamo potuto vedere sul volto di George Floyd, attraversare i loro volti; possiamo immaginare che anche loro, negli ultimi istanti prima di morire, non riuscissero più a respirare. Eppure sono morti nel silenzio pressoché totale. Peggio della loro morte, per certi aspetti, è l'indifferenza generale che li ha avvolti e, un minuto dopo, già dimenticati. La “società dei selfie” in questo caso, per questi morti, non ha avuto, e forse non avrà, una immagine da esibire sui social a testimoniare la propria fugace indignazione. Meglio indignarsi per gli “altrui” morti ed esaltarsi per l'esplosione dell'altrui rabbia che mettere in discussione quanto avviene in casa propria! Troppa fatica per una storia che, in assenza di immagini spendibili nelle dinamiche del consenso politico d'accatto, non avrebbe permesso la messa in campo di una “estetica del conflitto” e il conseguente pieno di like! Le dinamiche che si celano dietro la riuscita dei topic trend sono chiarissime: una immagine compassionevole e accattivante al punto giusto accompagnata da una frase ad effetto sull'argomento del giorno. Poco importa che il minuto dopo viene soppiantata da un altro argomento. Poco importa che per quel dato fatto non ci sarà mai chiarezza o giustizia, l'importante sarà aver fatto il pieno di like. Tra la società dei selfie, le immagini dei palazzi a fuoco di ieri hanno già offuscato quella di George Floyd soffocato dal ginocchio del poliziotto (mentre l'autopsia ufficiale, esattamente come per i 14 morti nostrani, già assolve il poliziotto affermando che Floyd non è morto per asfissia o strangolamento!). Immagini passate bypassando completamente la morte di un ragazzino di 19 anni sparato da un Suv in corsa per le strade di Detroit durante una delle tante manifestazioni che continuano a diffondersi in lungo e largo per le strade americane.
Per la società dei selfie è difficile anche solo immaginare che dietro le morti di Artur, Salvatore, Ghazi, Haitem, Hafedeh, Ben Mesmia, Alì, Agrebi, Ariel, Rouan, Marco, Carlo Samir e Ante, ci siano state violenze e razzismo dettate da quello stesso suprematismo bianco e corporativo che in Italia, esattamente come negli Stati Uniti d'America, abbonda in diversi corpi di FF.OO..
Eppure basterebbe scorrere alcuni social di gruppi appartenenti alla polizia penitenziaria per averne conferma: all'abbondanza di aggettivi spregiativi e sessisti indirizzati generalmente ai detenuti e ai loro familiari, che non risparmiano neanche le associazioni e gli organismi di difesa e garanzia dei diritti dei detenuti, fanno da contrappunto aggettivi dal tono esplicitamente razzista nel momento in cui vengono rivolti specificatamente a detenuti migranti.
Una società che avrebbe dovuto, esattamente come a Minneapolis e nel resto degli Stati Uniti, scendere in piazza e chiedere conto di queste morti; interrogarsi, e interrogare il governo e l'amministrazione penitenziaria, sullo strano silenzio calato su ben 14 morti, “scaricati” dalla conta serale con un certificato di morte “per metadone e altro”. Certificato redatto prima ancora che l'autopsia venisse eseguita e che, guarda caso, molto velocemente confermerà la morte per metadone; esattamente come il risultato autoptico di George Floyd che nega l'evidente morte per soffocamento. 14 morti sui quali è stata taciuta per quasi due settimane identità e nazionalità in attesa, forse, che si “calmassero” le acque e poter fornire l'alibi del metadone a quella che potrebbe essere ricordata, se ci fosse la volontà collettiva di indignarsi e ricercare “verità e giustizia” anche per loro - morti e occultati nelle mani dello stato italiano, come una vera e propria strage di detenuti su base etnica avvenuta tra l'8 e il 10 marzo nelle carceri di Modena, Bologna e Rieti.
Ma forse è chiedere troppo ad una società la cui indignazione corre sui social il tempo di un like.
Sandra Berardi – Yairaiha Onlus
Virus behind bars
In the last two months our life has changed deeply. Fear for an invisible, deadly and intrusive enemy has added to everyday worry about the future. Moreover, this fear is continuosly feeded by the precautionary measures of social distancing, the ban on unurgent displacements, personal hygene and respirators. Maybe these measures are legitimate, of course they are advisable for healthcare, but they are inadequate to stop fear of contagion. Outwardly, during these months, Italy has switched off herself: only needful activities have been carrying on and prisons, residential houses, hospitals too. Total institution must go on.
In prison, information about Covid-19 spread hasn’t focused on real priorities, but only on the emergency and securitarian side.
Our Costitution describes expressly the right to healtcare as fundamental: for this reason, our Government should have token every kind of measure to safeguard prisoners’health from the risk of contagion. But none. So that, alarm, fear, anger for the stop of family visits since the 7th of March and overcrowding have sparked off a chain reaction, led to riots.
After the protests, the “war bullettin” grew up from hour to hour, until it has definitively recorded 14 deads for reasons actually unknown, still under investigation. Even if this event can be considered a defeat for the italian penitentiary system, the Minister has tryed to deny all the responsibilities, looking for a “scapegoat” in Mafia or Anarchism. I’m wondering why they haven’t thought at islamic terrorism yet! In this way, surely four deads because of metadone overdose would have been more believable.
To resolve this situation, the opposition calls for drones or soldiers to garrison prisons, while the antimafia professional workers claim that the safest option is equipping old barracks as prisons, thundering against clemency measures. The antimafia workers opinion has towered above experts who suggested amnesty or suspension of the sentence. The heigh of this situation has been the replacement of the punishment from detention to house arrest for three 41bis prisoners: the reactionary view of antimafia workers has influenced public discussion on this theme, skipping some important information (as Bonura’s end punishment or Zagaria’s return to jail after the medical treatments). In this way, the attemption has been brought up to “mafia emergency” rather than on the safeguard of prisoners healthcare. But how could old and ill people who have served more than 30 years of punishment under special penitentiary regime of 41 bis posing a threat to public order? It seems to be a pretext for ignoring critical situations such as inhuman and degradating conditions in jail; the death of 14 people; the role of total institution; the absence of any rieducation purpose and the inquiries set up for tortures in jail; the insubstantial misures assumpted to prevent Covid-19 and the spread of the virus among penitentiary staff.
Sandra Berardi, Yairaiha Onlus President, an organization which cares about safeguard of prisoners’ rights. 3rd may 2020
from www.palermo-grad.com
IL POTERE E LA NUDA VITA CARCERARIA
Associazione Yairaiha Onlus·Domenica 15 marzo 2020
L’improvviso e drammatico esplodere della crisi sanitaria del coronavirus ha investito, e non poteva essere diversamente, anche le carceri italiane, che hanno pagato un doloroso pedaggio di 14 morti al panico morale verificatosi in seguito all’emergenza e alle misure varate dal governo in materie di carcere. Il problema, come al solito, è quello della repressione e del contenimento, di cui i detenuti, per la loro condizione, sono i primi a subire le conseguenze. L’emergenza sanitaria, quindi, sortisce l’effetto non solo di rafforzare il neo-liberismo, ma anche lo stato d’eccezione, a spese dei più deboli. Da parte nostra, pensiamo che i detenuti abbiano le loro ragioni, e che bisognerebbe lavorare per trovare risposte altre dalla repressione. Ma che, d’altra parte, i rapporti di forza esistenti a livello politico e sociale, fanno sì che l’esito non possa essere che quello attuale. Proveremo a spiegare questo assunto in tre passaggi.
In primo luogo, il coronavirus sta smantellando i fondamenti della convivenza civile, a partire dalla routine. In altre parole, tutto il cumulo di abitudini, aspettative, richieste che forma la trama della vita quotidiana, è sospeso. Non si può uscire, incontrare gli altri, rimanere fuori per scelta propria. In altre, parole, libertà di circolazione, una delle prerogative individuali sancite dalla Costituzione, su cui alcuni costituzionalisti hanno già trovato da ridire per le conseguenze lesive dai diritti fondamentali. Se il vulnus dei diritti è già profondo per i cittadini liberi, lo è ancora di più per i detenuti. La routine carceraria, infatti, consiste di poche valvole di sfogo a fronte del regime detentivo prolungato nel tempo: le ore d’aria, i colloqui con gli avvocati, le visite dei familiari, oltre alle attività di trattamento, rappresentano le valvole di sfogo attraverso lequalila condizione detentiva riesce ad essere sopportabile, o, quantomeno, ad essere sopportata dai detenuti. Un altro elemento della routine carceraria, è rappresentato dalla possibilità di fruire dei permessi per andare a trovare i propri familiari. Una misura di prospettiva, che consente ai detenuti non solo di ricostruire la propria rete relazionale, ma anche di progettare un reintegro in società alla fine della pena. E’ evidente che la sospensione di queste misure in conseguenza del coronavirus contribuisce a rendere ancora più invivibile la vita all’interno dei penitenziari, e a porre le condizione per un malessere che non può non sfociare in una ribellione. A poco servono argomentazioni ciniche che vedrebbero i detenuti più preparati ad affrontare l’isolamento rispetto alla popolazione libera, perché proprio chi vive in una situazione di spazi vitali ridotti al minimo soffre maggiormente delle ulteriori restrizioni, che si connotano come un vero e proprio colpo di grazia agli spiragli di umanità che talvolta si aprono all’interno di una condizione di sofferenza come quella detentiva.
In secondo luogo, questo discorso vale anche per le condizioni sanitarie. Da anni si continua a rilevare come il carcere sia un vero e proprio luogo di sofferenza fisica. Spazi ristretti e insalubri ospitano una popolazione carceraria in eccesso rispetto ai parametri minimi di vivibilità. A peggiorare la situazione, si aggiunge una sovra-rappresentazione di gravi patologie come l’AIDS, la TBC, l’epatite, la tossicodipendenza tra i detenuti. In questo contesto, al momento in cui un’infezione da coronavirus facesse capolino in carcere, il numero di decessi sarebbe di proporzioni esponenziali, finendo per degenerare in una vera e propria strage di detenuti. Buonsenso vorrebbe che, per questi motivi, si varassero immediatamente dei provvedimenti deflattivi: immediata scarcerazione dei detenuti di età superiore ai 65 anni, di quelli con un residuo di pena inferiore a 3 anni, di quelli affetti da patologie gravi. Ancora meglio, sarebbe il momento di varare un’amnistia, che finalmente la faccia finita con l’ipertrofia penitenziaria dispiegata in questi anni e ponga le condizioni per una nuova politica penale incentrata sulle garanzie e sui diritti dei detenuti. Magari all’amnistia si potrebbe accompagnare una nuova stagione di politiche pubbliche a partire dall’emergenza coronavirus, che si concentri sugli investimenti nella sanità, sulla tassazione dei patrimoni, sulla requisizione della sanità privata e degli alloggi sfitti per far fronte all’emergenza ospedaliera. E magari riduca il panico morale.
Non assisteremo a niente di tutto questo. Il potere si nutre della paura, del bisogno, della disuguaglianza. Peggio ancora, il potere ha bisogno di costruirsi un’aura di sacralità, che lo rende al di sopra del bene del male e lo legittimi presso il pubblico come la fonte suprema della moralità e della pratica. Per questo i detenuti saranno le prime vittime del coronavirus. Per questo 14 morti passano inosservati. L’homo sacer, ci insegna Giorgio Agamben, rappresenta la soglia di legittimazione del potere. Senza un capro espiatorio da sacrificare, non esiste un potere da temere e da ossequiare. Per questo la vita va depotenziata, devitalizzata, tolta. Perché senza questo passaggio, un’opinione pubblica da anni bramosa di maniere forti, stenterebbe a credere al governo. In particolare a un esecutivo sorto da un’alchimia di palazzo, che stava disperatamente cercando la propria occasione.
In Italia, in questo momento, di homini (e feminae) sacri,ce ne sono 60.000. Da rinchiudere, da reprimere, da uccidere. Sennò, l’opinione pubblica, rifiuterebbe di credere alle buone intenzioni del governo e alle comparsate televisive. E non canterebbe sui balconi. Ma che importa. La “sinistra” è al governo, Salvini e Meloni sono all’opposizione. Fino a quando…?
Vincenzo Scalia - docente University of Winchester
Se la giustizia sociale viene confusa con il giustizialismo
Negli ultimi 40 anni la popolazione carceraria a livello mondiale, e quella sottoposta a misure di prevenzione e/o sorveglianza, tranne poche eccezioni, è più che triplicata. Nell’ultimo decennio, sempre a livello globale, stiamo assistendo ad un aumento delle disuguaglianze e, parallelamente, ad un aumento della violenza, per le quali le uniche risposte elaborate dai governi sono state in chiave sanzionatoria e repressiva a cui fanno seguito misure privative della libertà personale.
È un fenomeno dibattuto poco e male all’interno delle formazioni politiche di movimento e delle sinistre partitiche dove prevalentemente si tende ad analizzare, ed eventualmente a solidarizzare, con alcune “parti” specifiche delle diverse soggettività destinatarie dell’azione punitiva e sanzionatoria. Assistiamo quindi ad una solidarietà diffusa verso quelle che si considerano le categorie sociali più deboli o di maggior interesse collettivo o, ancora, verso quei soggetti di minore problematicità nel sentire comune che mettono al riparo da possibili critiche, ad esempio i migranti o gli occupanti abusivi. Le azioni/manifestazioni di solidarietà a specifiche categorie sociali e contro particolari provvedimenti (ad esempio i pacchetti sicurezza in Italia) si limitano a mettere in discussione alcune scelte politiche ma non l’evoluzione pan-penalistica della governance a livello nazionale e globale.
Una visione miope che non scalfisce minimamente né la misura contestata né il processo estensivo delle politiche e dei sistemi penali e punitivi all’interno degli ordinamenti. Una miopia che di fatto sta permettendo ai legislatori di introdurre un ventaglio sempre maggiore di reati e di stabilire cosa è reato ed anche il chi, come e quanto punire.
Alla base delle politiche penali agiscono per intersezione una serie di fattori razziali che definiscono i destinatari dell’azione repressiva precedentemente passati attraverso un vero e proprio processo mediatico di mostrificazione sociale: se indigeni e afroamericani rappresentano il prototipo del criminale negli Stati Uniti d’America, meridionali, marginalità sociali, migranti e attivisti sono i destinatari pressoché assoluti dell’azione penale e special preventiva in Italia.
Basterebbe riflettere su alcuni dati ascrivibili ai soggetti che oggi compongono la quasi totalità della popolazione carceraria e di quella sottoposta a misure di prevenzione per comprendere il processo di razzializzazione posto alla base delle politiche penali.
La visione del fenomeno repressivo nella maggior parte dei movimenti, quando non completamente assente, risulta parcellizzata e lontana da sé, come se riguardasse indefinitamente “gli altri”. Una sorta di accettazione/rassegnazione sulla necessità dell’atto punitivo verso “qualcuno” che non mette in discussione né le cause né gli effetti, o meglio, si riconoscono le cause (le diseguaglianze sociali), si riconoscono gli effetti (aumento della violenza e della criminalità) ma si accettano passivamente le soluzioni proposte dalla classe dominante: azione punitiva che va dalla multa/divieto al carcere, passando per il braccialetto ecc. ecc..
In Italia, nell’ultimo periodo, stiamo assistendo ad una trasformazione ulteriore delle politiche penali: basti pensare alla previsione del carcere fino a sei anni per i percettori di reddito di cittadinanza sorpresi a svolgere un lavoro a nero!
Che le politiche punitive siano strumenti di controllo e regolamentazione sociale non lo scopriamo oggi, né può essere considerato argomento superato data la pervasività dei dispositivi securitari nel nostro sistema sociale. L’arresto eclatante di Nicoletta Dosio, storica militante No Tav, ha riacceso i riflettori sulla repressione (argomento talvolta tabù nei movimenti) con un rapido sguardo alla realtà carceraria nella sua complessità. Quello che manca oggi è un punto di vista di classe che metta in discussione l’impianto securitario posto alla base della governance nazionale e globale, che provi a ribaltare il giustizialismo imperante che ha fatto accettare anche in ambiti di movimento, e della cd sinistra radicale, la soluzione punitiva come l’unica possibile.Si potrebbero fare numerosi esempi di accettazione del sistema panpenalistico ma basti pensare a quanti “tra noi” ritengono accettabile il regime del 41 bis per i presunti mafiosi o terroristi mentre si contesta se applicato ad alcuni prigionieri politici, oppure a quanti non riescono nemmeno ad immaginare una società libera dalle galere.
Il piano di ragionamento che si propone muove da una idea abolizionista del sistema penale a 360° che sgomberi il campo dall’equivoco tra giustizialismo e giustizia sociale, potendo dimostrare il fallimento di una istituzione razzista e classista e la barbarie che la stessa rappresenta all’interno di una società che non riesce ad affrontare, attraverso efficaci meccanismi redistributivi delle ricchezze, le diseguaglianze socio-economiche che stanno alla base di buona parte degli illeciti sanzionati penalmente. Ed anche per quanto concerne l’uso e il commercio delle sostanze stupefacenti che, ricordiamolo, rappresenta l’ombelico attorno a cui gravitano sia il sistema penale sia quello criminale, l’approccio dovrebbe essere liberato da ipocrisie di fondo (sconfiggere il traffico e scoraggiarne l’uso) ed avviare politiche di prevenzione e riduzione dei (molteplici) danni. Le cronache degli ultimi anni sono pregne di esempi di uno stato debole e compiacente con i forti e forte con i deboli, quelle che si sono levate contro questo sbilanciamento sono state voci flebili, incapaci di spostare l’ordine del discorso anche per la forte ricattabilità cui sono soggette.
Sviluppare oggi una proposta dal basso contro lo Stato penale significa mettere a nudo le contraddizioni interne alla società stessa, ridefinire il perimetro del concetto di legalità (attualmente ad esclusiva difesa delle classi privilegiate, della proprietà privata e della libertà dei mercati e delle imprese) a difesa degli ultimi e dei beni comuni, libertà comprese.
Significa liberare il nostro ordinamento dal Codice Rocco e successive degenerazioni, dai singoli decreti criminalizzanti che comprimono sempre più le libertà individuali; significa mettere in discussione il carcere come soluzione alle “violazioni” ed iniziare a vederlo per quello che è: una parte del problema!
La narrazione delle classi dominanti ha portato alla criminalizzazione di chiunque osi minare il loro benessere, iniziamo dunque a rivendicare un benessere di classe e universale che ridefinisca anche i concetti stessi di giustizia, crimine e devianza, non accontentandoci più dei pezzetti di diritti che ci lasciano raccattare sotto il tavolo.
Bisogna elaborare una critica militante del populismo punitivista, che si articoli su due piani: il primo è quello della critica al giustizialismo, che per molti, a sinistra è diventato il surrogato della giustizia di classe. Sull’altare della legalità si sono sacrificati i diritti dei più deboli, si è introdotto un interclassismo punitivista che trascenderebbe le differenze di classe ma in realtà si traduce nell’incarcerazione e nel controllo preventivo delle classi pericolose. L’altro livello è quello delle politiche penali alternative, che vadano nel senso dell’abolizione di un’istituzione, quella carceraria, che oltre a puntare alla neutralizzazione delle spinte oppositrici all’ordine esistente, tenta di eliminare dal sociale tutti i gruppi sociali che non riesce a governare. Inoltre, il carcere è un luogo di sofferenza estrema, di malattie croniche, suicidi veri o presunti, abusi persistenti.
Una società senza carcere, manette facili e legislazioni speciali è una società più giusta.
Sandra Berardi, Associazione Yairaiha Onlus
Vincenzo Scalia, ricercatore University of Winchester
Italo di Sabato, Osservatorio repressione
Domenico Bilotti, docente Università Magna Graecia
Donato Cardigliano, Associazione Bianca Guidetti Serra
Maurizio Nucci, avvocato
Eleonora Forenza – Rifondazione Comunista
Francesca de Carolis, scrittrice
Lisa Sorrentino, Associazione Yairaiha Onlus
Antonio Perillo – Rifondazione Comunista
Ilario Ammendolia, politico e scrittore
Giuseppe Lanzino, avvocato Yairaiha
Damiano Aliprandi, giornalista
Peppe Marra, Pap
21 gennaio 2020
Carceri e torture tre giorni di dibattiti su ergastolo e 41 bis
Quicosenza 2 Ott 08, 2019
La Corte europea per i diritti dell’uomo ha sancito che il fine pena mai è un trattamento inumano e degradante
COSENZA – Temi spinosi quali il superamento dell’ergastolo ostativo e del regime di 41 bis devono entrare nel dibattito comune prima ancora che nelle aule parlamentari ed in quelle dei tribunali. Con le tre, diverse, iniziative che si terranno a partire da domani mercoledì 9 ottobre fino a venerdì 11 ottobre in Calabria, rispettivamente a Cosenza, Reggio Calabria e Catanzaro, in collaborazione con le camere penali, si approfondiranno i meccanismi dell’ostatività cercando di sfatare i tanti luoghi comuni allarmistici che stanno occupando il dibattito politico delle ultime ore, con il chiaro obiettivo di condizionare le decisioni che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (in merito al ricorso presentato dall’Italia avverso la “sentenza Viola”) e la Corte Costituzionale (sul caso Cannizzaro) sono chiamate a prendere.
«Negli ultimi anni – si legge in una nota dell’associazione Yairaiha – già diverse sentenze emesse dalla Cassazione piuttosto che da singoli, coraggiosi, magistrati di sorveglianza, applicando quanto già contenuto nella stratificazione di norme relative al contrasto delle organizzazioni criminali e terroristiche, avevano riconosciuto la pretestuosità della preclusione automatica ai benefici per i condannati ai sensi del 4bis, riconoscendo il diritto a vedersi riconosciuti i benefici richiesti. Ma le sentenze emesse dai singoli magistrati di sorveglianza o dalla Cassazione pur costituendo importante letteratura giurisprudenziale sono vincolati esclusivamente per il caso specifico sul quale si pronunciano. Con la sentenza “Viola contro Italia”, il 13 giugno del 2019, la Corte europea per i diritti dell’uomo ha sancito che il fine pena mai senza possibilità di revisione alcuna è un trattamento inumano e degradante.
L’ergastolo ostativo viola l’art. 3 della Convenzione sottolineando l’incompatibilità con la dignità umana che è poi la vera essenza della Convenzione stessa. Sentenza e data storiche per chi, pur consapevole dei limiti costituzionali delle preclusioni dettate dal 4bis, negli ultimi 15 anni ha dovuto fare i conti con l’inammissibilità di qualsiasi richiesta perché “ostativo ai benefici”. E questa straordinaria sentenza chiarisce anche alcuni aspetti affatto scontati in merito ai capisaldi del 4 bis e della lotta ai fenomeni criminali: 1) non sempre la pretesa collaborazione può essere resa in sicurezza; 2) non sempre alla collaborazione con la giustizia corrisponde un ravvedimento interiore e ad un distaccamento reale dalle organizzazioni; 3) si deve tener conto dell’evoluzione e del cambiamento interiore intervenuti nella persona a distanza di tanti anni dal compimento del reato.
E per il prossimo 22 ottobre è atteso anche il pronunciamento della Corte Costituzionale in merito ad un caso analogo il cosiddetto Caso Cannizzaro, seguito dall’avv. Vianello Accorretti, che potrebbe porre fine all’automatismo dell’ostatività e riportare il senso della pena in linea con le finalità costituzionali dettate dall’art. 27. Durante le tre giornate verranno presentati due preziosissimi volumi curati dalla giornalista Francesca de Carolis: “Cento giorni” di Claudio Conte, ergastolano ostativo laureatosi in giurisprudenza all’UniMG, discutendo una tesi sull’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo che gli è valsa la lode accademica; e “Diversamente vivo” di Davide Emmanuello, una raccolta di lettere dal 41bis che testimoniano l’arbitrarietà della proroga indeterminata del massimo regime penitenziario a cui è sottoposto ininterrottamente da oltre due decenni, “senza che vi siano elementi necessari a giustificarne l’applicazione”».
PROGRAMMA INCONTRI:
MERCOLEDI’ 9 OTTOBRE 2019
Biblioteca Ordine Avvocati Cosenza ore 15:30 – 19:00
GIORNATA STUDI SU ERGASTOLO OSTATIVO E 41 BIS
Saluti : Avv. Vittorio Gallucci – Presidente Ordine Avvocati
Cosenza
Avv. Pietro Perugini – Presidente Camera Penale
Cosenza
Avv. Marcello Manna – Componente Giunta UCPI
Coordina : Sandra Berardi – Presidente Associazione Yairaiha Onlus
I^ sessione (h .15:30 – 17:30) – Ergastolo e ostatività
– Francesca De Carolis – giornalista, curatrice del libro
“Cento giorni” di Claudio Conte
– Avv. Giorgio Vianello
Accorretti – il caso Cannizzaro al vaglio della Corte
Costituzionale
– Dott.ssa Paola Lucente – Presidente Sezione
Penale Tribunale di Cosenza
– Avv. Filippo Cinnante –
Consigliere Direttivo Camera Penale di Cosenza
II ^ sessione (h.17:30 – 19:00) – 41 bis
– Francesca De
Carolis – curatrice del libro “ Diversamente vivo” di Davide
Emmanuello;
– Avv. Marina Pasqua – Consigliera Direttivo
Camera Penale di Cosenza
– Avv. Giuseppe Lanzino – Yairaiha
Onlus
– Avv. Valentina Spizzirri – Componente Osservatorio
Carcere UCPI – referente locale Camera Penale Cosenza.
L’evento è in corso di accreditamento da parte del COA di Cosenza
GIOVEDI’ 10 OTTOBRE 2019
Fattoria Urbana, Via Vallelunga – Catona Reggio Calabria ore 18:30
Mai, Per Sempre.
Presentazione de “Cento giorni” di
Claudio Conte e “Diversamente vivo” di Davide Emmanuello. Due
volumi che narrano in prima persona l’assurdità dell’ergastolo e
del 41bis.
Ne discutono:
– Dott. Antonino Santisi;
– Giampiera Nocera, avvocato del
foro di Reggio C.;
– Sandra Berardi, presidente
dell’Associazione Yairaiha onlus;
– Francesca de Carolis,
giornalista e curatrice dei libri;
– Agostino Siviglia, Garante
regionale delle persone detenute.
VENERDI’ 11 OTTOBRE 2019
Casa delle Culture di Catanzaro ore 15:30
“L’ergastolo ostativo, tra diritto e ragion di Stato”
Presentazione del Libro “Cento giorni” di Claudio Conte
Saluti istituzionali:
Avv. Antonello Talerico
Presidente Ordine Distrettuale degli
Avvocati di Catanzaro
Avv. Ermenegildo Massimo Scuteri
Presidente
Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro
Introduce e modera:
Avv. Danilo Iannello, Responsabile Scuola Territoriale di Formazione Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro
Interverranno:
AVV. ORLANDO SAPIA – Responsabile Osservatorio carcere Camera
Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro
“Le recenti politiche
securitarie, la perenne emergenza e la funzione rieducativa della
pena”
PROF. DOMENICO BILOTTI – Yairaiha Onlus – Docente di Diritto e Religioni presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro “Una panoramica sull’ostatività, tra pretese e sviste”
FRANCESCA DE CAROLIS – Giornalista e curatrice del libro “I Cento giorni di Claudio Conte”
DOTT.SSA ANGELA PARAVATI – Direttrice Casa Circondariale “Ugo
Caridi” di Catanzaro
“Ergastolo ostativo e finalità
rieducativa della pena: l’esperienza del carcere di Catanzaro”
AVV. CARLO PETITTO – Avvocato Penalista – Foro di Catanzaro, “Liberarsi dalla necessità dell’ergastolo: una ragionevole utopia”
AVV. SALVATORE STAIANO – Avvocato Penalista – Foro di
Catanzaro
“L’ergastolo nella economia della sanzione”
E’ stato invitato a partecipare l’autore del libro Claudio Conte
Evento in corso di accreditamento ai fini della Formazione Professionale Continua e co-organizzato da Camera Penale “A. Cantàfora” e Associazione Yairaiha Onlus
LE FAKE NEWS DEL CARCERE ITALIANO CHE NESSUNO PUO SMENTIRE
AMNISTIA O LA COSTITUZIONE CHE CI MANCA
Uno dei rischi più evidenti nel sistema giuridico italiano è che le norme di civiltà siano spesso consapevolmente forzate dall’opportunismo di alcuni loro presunti destinatari. Ricordiamo la legge n. 104 del 1992 che si poneva finalmente sul piano della legislazione sociale l’integrazione delle diverse abilità e la loro assistenza; il nostro ordinamento ha prodotto purtroppo migliaia di utilizzi abusivi di quel tessuto normativo e ciononostante esso ha colmato una lacuna grave e chi se ne è avvalso con pienezza di titolo ne ha tratto dignità e sostegno. Ancor prima, potremmo citare la legge n. 194 del 1978, la cui dinamica applicativa ha fatto veramente poco per la tutela sociale della maternità e ha prodotto due disfunzioni perfettamente simmetriche: chi ne ha incoraggiato la vigenza nell’ottica di una malintesa secolarizzazione della morale sessuale e chi, all’opposto, ha fomentato le obiezioni di opportunità e di comodo, creando squilibri territoriali importanti nell’esercizio del diritto correlato all’interruzione di gravidanza.
Questa premessa fa capire come l’argomento più utilizzato contro una seria ipotesi di amnistia, a beneficio della popolazione penitenziaria, sia infondato (“se ne avvarrebbero tanti lestofanti”). Tanti lestofanti si avvalgono, in verità, delle norme più significative e apprezzabili di tutto il nostro diritto.
Negli ultimi dieci giorni è andata in scena una diffusa agitazione carceraria che, in forme diverse, ha coinvolto secondo stime attendibili, poi convalidate da fonti ufficiali, oltre venticinque istituti di pena. Qualcuno ha ipotizzato che questa congiuntura fosse opera di una manovra eterodiretta, ma anche qui l’ipotesi reca in sé qualcosa di profondamente contraddittorio. Alcuni dei soggetti detenuti che sono riusciti a evadere certamente (ed è grave) ambiscono a tornare a delinquere, persino all’interno degli stessi sodalizi criminali cui appartenevano prima di essere processati e condannati. La protesta non nasceva però sulla spinta di questi rei abituali – categoria ormai priva di vero significato legale – ancora da individuare, bensì nel quadro di una situazione di sofferenza delle carceri quanto ai numeri, ai profili igienici e sanitari, ai regimi di esecuzione e, nondimeno, all’attivazione o meno di protocolli idonei all’emergenza da coronavirus che sta tenendo molti col fiato sospeso.
Da questo punto di vista, difficile dar torto alle istanze dei detenuti: l’ingresso negli istituti di pena ha una evidente contrazione legale e regolamentare (il personale autorizzato, i legali, i docenti, gli operatori, i familiari, ecc.), ma sul piano strettamente medico-scientifico quella ristretta barriera normativa non garantisce affatto da tutte le ipotesi di contagio – di qualunque tipo e, in special modo, quelle più volatili, sottili, aggressive e silenziose. Come il Covid-19.
Durante le proteste sono morti numerosi detenuti: le cause di questi decessi, ricondotti nella generalità dei casi a forme di overdose da combinazione farmacologica, saranno senz’altro accertate nelle sedi opportune. Ma è concepibile che sia programmata da parte degli stessi detenuti un’azione dimostrativa in cui non pochi di loro trovano la morte? Cioè, che si programmi accuratamente e di morire e come morire, quando invece si protesta per il bene della vita? Qualche dubbio rimane. Forse queste agitazioni non hanno davvero nulla di eterodiretto e il loro gorgogliare così tumultuoso e contestuale è stato l’ennesimo segno di una situazione che era andata sedimentando. Si possono mettere sotto il tappeto tutto le briciole che si vogliono, ma, come insegnavano i nostri nonni, a un certo punto i tappeti fanno la gobba (dello sporco ammassato sotto di loro, nda) e allora si vede che non hai pulito il pavimento.
Persino taluni ex-garantisti e progressisti cominciano a dubitare dell’utilità di un provvedimento di clemenza. Alcuni affermano che ben altra sarebbe la legalità socialista. E anche questa è una colossale sciocchezza. Senz’altro un sistema socialmente equo, garantendo l’accesso al reddito e formando cittadinanza consapevole, rallenta le possibilità di commissione di un delitto; sistemi però così perfettamente adeguati da estinguere il delitto dal vissuto la storia non ne ha conosciuto. Ha conosciuto semmai sistemi di ogni estrazione politica, religiosa, ideologica e culturale che hanno previsto l’amnistia come strumento di gestione della politica criminale e penitenziaria. Non ci si è chiesti soltanto, in altre parole, se l’amnistia avrebbe consentito all’imputato o al condannato di realizzare meglio il suo ritorno nella società. Ci si è chiesti e ci si è dovuti chiedere ancor prima se quel provvedimento di amnistia avrebbe COLLETTIVAMENTE avuto effetti positivi o deleteri. Non siamo più in tempi di “uso (strettamente) politico” dell’amnistia. Non è l’Italia del Decreto luogotenenziale del 1944; non è l’Italia del Decreto presidenziale del 1946.
Siamo il risultato di un Paese che per trent’anni, in vigenza peraltro di un diverso codice della procedura penale, tra il 1953 e il 1983, ha dato vita a ben undici amnistie. Quattro dal 1970 al 1981: gli anni, vorremmo ricordarcelo, quando si parla di sicurezza, in cui scoprivamo le stragi e le mafie stragiste, gli omicidi politici e i depistaggi, il narcotraffico e le bande, gli anni del coprifuoco. L’Italia delle faide e del coprifuoco, ecco, uscì da quell’allucinazione intossicante anche grazie all’uso (ragionevole, nemmeno irreprensibile) dell’amnistia. Dal 1990 ad oggi, invece, altro spicchio trentennale, non ce n’è stata nessuna. Nemmeno quando si riuscì ad approvare, in un testo finale di rara mancanza di coordinamento, l’indulto che aveva caldeggiato persino Giovanni Paolo II, nell’estate del 2006, i legislatori si premurarono di associarlo a un provvedimento amnistiale che così avrebbe potuto estinguere oltre alle pene anche i reati – non per svuotare le carceri, ma per non far naufragare i processi per i delitti più gravi, a effetto della natura straboccante del cd. “arretrato penale” che spingeva a celebrare processi a pioggia in assenza di pena!
Giovanni Paolo II, che va di moda criticare come un “non riformatore”, su due cose tuttavia aveva davvero avuto le idee chiare e la vista lunga: il debito pubblico dei Paesi del Terzo Mondo che veniva usato per ragioni speculative, addirittura neocoloniali, e la condizione delle carceri, che presto o tardi avrebbe creato molto più allarme che non sicurezza. Molta più delinquenza, dentro e fuori di esse, che non pacificazione sociale.
Senza avere la nostra Costituzione di Stato sociale di diritto – impalcatura istituzionale pur certo sottoponibile a critiche, ma forgiata dall’impegno di almeno due generazioni di Italiani – oggi l’Iran, proprio per fronteggiare la propagazione del coronavirus nelle comunità segreganti, procede alla liberazione anticipata di migliaia di detenuti per reati a comminatoria infraquinquennale. Non avremmo mai immaginato di potere considerare uno Stato ancora afflitto da sperequazioni interne e contraddizioni teocratiche un modello positivo persino il nostro bellissimo Belpaese.
Domenico Bilotti – docente UMG - Associazione Yairaiha Onlus
CASO TORTURA SAN GIMIGNANO
Il Dubbio, 23 sett. 2019, Damiano Aliprandi
L’autorità giudiziaria ha disposto la sospensione di quattro agenti, sono 15 gli indagati. Il garante nazionale Mauro Palma: «il dap poteva intervenire prima senza attendere l’esito delle indagini»
Il caso di san Gimignano è scoppiato. L’autorità giudiziaria ha disposto la sospensione immediata di quattro agenti penitenziari perchè accusati di tortura effettuata nei confronti di un detenuto straniero nel carcere di San Gimignano. Sono indagati in tutto 15 agenti penitenziari non solo pèer il reato di tortura (613 bis) e lesioni personali, ma anche falso ideologico, visto che i filmati della videosorveglianza hanno svelato che il loro racconto non combacerebbe con la realtà dei fatti. Il provvedimento del Gip dopo le indagini della Procura è di quasi 500 pagine ricostruisce la vicenda con tanto di elementi intercettazioni comprese che comproverebbero il reato commesso.
Ricordiamo che la notizia del presunto pestaggio è stata riportata dalle pagine de Il Dubbio circa un anno fa. Il Garante nazionale delle persone private della libertà, si è subito attivato segnalando il caso al provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria che, a sua volta, ha informato formalmente il Dap. Da lì le interlocuzioni tra quest’ultimo e la direzione dell’istituto penitenziario. Ma c’è voluto un anno, affinché si predisponesse la sospensione degli agenti e i provvedimenti disciplinari, per poi interromperli in attesa dell’esito delle indagini della procura.
Questo sarebbe stato, molto probabilmente, un segnale forte, di intransigenza verso eventuali abusi. Questione ribadita dal garante nazionale Mauro Palma durante la conferenza stampa di ieri, che ha aggiunto una ulteriore nota negativa: ovvero che la direzione del carcere per un determinato periodo non ha segnalato il caso al Dap. C’è voluta la professionalità e il coraggio di una educatrice che ha intrapreso di sua spontanea volontà, l’iniziativa di mandare una nota al dipartimento. «Non sono episodi che rappresentano la consuetudine» ha precisato sempre Palma, ma «nello stesso modo bisogna essere reattivi quando arriva una denuncia di presunti abusi, ma soprattutto preventivi».
Sono diversi i casi di presunte violenze. Non solo nel carcere di San Gimignano, ma anche ad esempio quello di Monza dove è intervenuta l’associazione Antigone, mandando un esposto alla procura, così come altri istituti dove è in corso un procedimento giudiziario. Tra i vari casi segnalati dal Garante nazionale, uno è quello di Tolmezzo, dove la video sorveglianza dimostrerebbe che alcuni agenti penitenziari avrebbero allagato la cella con idrante, lasciando il detenuto bagnato per tutta la notte. Ma, stando ad oggi, la Procura competente ancora non ha notificato eventuali avvisi di garanzia e quindi le indagini sono ancora in corso per verificare l’accaduto. Il caso è stato raccontato sempre sulle pagine de Il Dubbio.
LA DOTTORESSA INTIMIDITA PER I REFERTI
Ma torniamo a San Gimignano e su quello che sarebbe accaduto nel carcere toscano l’ 11 ottobre scorso. Come riportato in esclusiva da Il Dubbio il 23 novembre del 2018, c’è stata la lettera di denuncia indirizzata a Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus, da parte di un detenuto che sarebbe stato spettatore del presunto pestaggio nei confronti dell’uomo extracomunitario. Addirittura lo scrivente ha riferito di essere stato aggredito da un agente penitenziario per aver protestato contro il presunto pestaggio. Gli stessi inquirenti, confermando l’accaduto, scrivono che quando venne riaccompagnato in cella, il detenuto cadde e un assistente capo di 120 chili gli salì addosso con le ginocchia mentre un altro lo stringeva per un braccio e un terzo lo afferrava per il collo.
L’altra conferma, come riportato sempre dal nostro giornale il 7 dicembre scorso, è arrivata dalla Asl che, una volta ricevuto i referti compilati dal medico di turno, ai sensi dell’art 331 cpp, ha trasmesso la notizia di reato alla competente Procura per le indagini. La dottoressa, per aver fatto il suo dovere, avrebbe ricevuto delle intimidazioni come ha chiarito Emilio Santoro dell’associazione l’Altro diritto e riportato nero su bianco anche dagli inquirenti. Un ruolo, il suo, non così scontato. Non sempre i medici denunciano. «Ma non per omertà – spiega in conferenza stampa Palma-, ma perché sono figure che cambiano spesso e quindi sono portate a ridimensionare alcuni referti».
I documenti redatti dalla dottoressa si riferiscono a tre detenuti visitati il giorno dopo i presunti pestaggi. Un detenuto riferisce di avere un forte mal di testa e presenta una ecchimosi al livello frontale destro, la sua versione è che sarebbe stato aggredito da un agente il quale, secondo quanto riferito, puzzava di alcol. Il detenuto in questione sostiene che avrebbe aperto il blindo per chiedere agli agenti di non picchiare l’extracomunitario e per questo motivo avrebbe ricevuto un pugno in fronte. Un altro detenuto racconta addirittura che diversi agenti sarebbero entrati in cella insultandolo e minacciandolo. Uno di loro gli avrebbe messo le mani per stringergli il collo e lui, per liberarsi, sarebbe caduto sul letto. Il detenuto però non presenta nessun segno al collo. Un altro recluso, invece, presenta una ferita abbastanza grande al livello dell’occhio, ma ha riferito che se la sarebbe procurata cadendo in un posto non precisato e ha rifiutato di medicarsi.
In realtà il Garante locale del carcere di San Gimignano – rappresentato dall’associazione L’Altro Diritto -, una volta avuta la segnalazione, aveva contattato la direzione del penitenziario. Ma quest’ultima gli ha fatto sapere che non c’era stato alcun pestaggio e tutta la documentazione era al vaglio dell’autorità giudiziaria. Ma venerdì 13 settembre, sono arrivati gli avvisi di garanzia. La procura di Siena ha indagato accuratamente, anche le immagini delle telecamere in parte schermate appositamente dai corpi degli stessi agenti – che confermano parzialmente l’avvenuto pestaggio.
«UNA RISERVA A SÉ STANTE»
«Era ora che scoppiasse il bubbone», ha fatto sapere il Garante regionale dei detenuti, Franco Corleone. Ma cosa intendeva? Raggiunto da Il Dubbio, spiega che il grave episodio che sarebbe avvenuto al carcere toscano è il frutto di una situazione devastante che riguarda l’intero sistema penitenziario. «Parto proprio dall’esempio del carcere di San Gimignano – spiega Corleone -, essendo stato costruito in aperta campagna, lontano da tutti e tutto, dove gli stessi familiari dei detenuti che provengono da regioni diverse sono costretti ad organizzarsi con un pullman».
Un carcere che ha cambiato spesso il direttore, perché nessuno auspica di andarci. «Non avendo una direzione forte e stabile, alla fine il potere diventa, di fatto, autogestito all’interno del carcere». Ma parliamo di un istituto che non ha nemmeno l’acqua potabile, tanto che il Garante è riuscito ad ottenere come magra soluzione la vendita di bottigliette di acqua minerale a basso prezzo. È un carcere che si trova tra i boschi, dove è facile che salti la corrente e problemi di collegamenti telefonici a causa degli eventi atmosferici.
Il Garante Corleone, per rendere bene l’idea, definisce l’istituto toscano una «riserva a sé stante». Anche il garante nazionale Palma, in conferenza, ha parlato di tutte queste criticità che riguardano il carcere toscano. Oltre al fatto che vige il problema del sovraffollamento e, dato significativo, c’è un aumento esponenziale dei detenuti che compiono gesti di autolesionismo.
Il garante regionale Franco Corleone, sempre a Il Dubbio, estende il discorso sull’intero sistema penitenziario, perché «a causa del governo precedente c’è stato un arretramento culturale per quanto riguarda il senso della pena». E aggiunge: «Mi auguro che ci siano segnali di discontinuità con l’attuale governo, perché finora ancora non li ho visti».
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